






Una sequenza per raccontare la nascita di un lettering molto particolare per un negozio di animali, dallo sketch al vettoriale.
Una sequenza per raccontare la nascita di un lettering molto particolare per un negozio di animali, dallo sketch al vettoriale.
In questa storia potrei usare in maniera assolutamente arbitraria tutte le tecniche di product placement di mia conoscenza per arrivare allo scopo. (Indovinate quale?)
Era giusto un anno che non salivo su una moto. Trecento e rotti giorni dal momento in cui ho venduto la mia mitica XT660X elaborata (doppio scarico Arrow, assetto ribassato, gomme antistrappo, vetri antiproiettile, senza accendisigari…) così, come una cosa normale, quasi necessaria, senza quasi voltarmi indietro. Solo l’ultima di una dinastia di moto della casa di Iwata a cui sono sempre stato fedele. Sempre!
Da tempo mi ero preparato al momento. Per convincermi a questa violentissima azione di negazione dell’io, avevo costruito una serie di motivazioni granitiche che vi elenco:
E per trecento e rotti giorni ci ho quasi creduto, fino a che il mio socio di cotone stampato della Rookie Farm (che, pensate, si aspetta pure dei ringraziamenti) ha pensato bene di prenotare un test nella nuova concessionaria della nota casa giapponese dei tre diapason. Mi avrà prenotato un test con una pianola? Con una moto d’acqua? Con uno scooter? Con un amplificatore? No.
Con il nuovo Ténéré 700, per gli amici T7, l’ultima evoluzione della filosofia dell’enduro nipponica, nata dal deserto per diventare moto tuttofare.
Potevo dire di no? Certo. L’ho fatto? Certo… Certo che no.
E così domenica mattina mi sono presentato in concessionaria come uno che non aveva meglio da fare, gironzolando tra le moto già schierate e criticando con sbuffi vari inutili e inesistenti dettagli, perché lei, la T7, era… quella giusta. L’ho capito dalla prima volta che l’ho vista come prototipo su un giornale, nel 2016. Poi Yamaha si è presa quattro anni per svilupparla, perché le cose le fanno bene, come le spade dei samurai. Fanculo il mercato. Si esce quando si è pronti.
I primi attimi sulla moto hanno fugato il dubbio che avessi perso la capacità di condurla, i primi venti minuti mi hanno dato la certezza che lei fosse proprio lei e per il resto della giornata me la sono goduta abbèstia, nonostante il test ride mi vedesse impallato in mezzo a cinquanta centauri “velocità uomo col cappello”, tutti rigorosamente rispettosi di tutti i limiti imposti… Uno strazio, come provare delle bolas in una cristalleria, per dire.
Ma fermi!!! Io ho smesso! Faccio una tiratina così, giusto per nostalgia. Già, come fanno gli ex fumatori prima di ricadere nel loro vizio tabagista.
Ma poi, in definitiva, a me che cazzo mi serve la moto? Lei è giusta, ma pure l’elenco dei buoni motivi per non averla più era valido… no?
No. La moto, per uno come me che ci è salito a cavalcioni la prima volta che non arrivava neppure ad abbracciare il serbatoio, è l’anello di congiunzione con il fantastico, che non vorrei mai perdere. Mio babbo era un cavaliere e io un giovane apprendista. Poi quei gesti di preparazione – giacca, guanti, casco, visiera, sistemazione del pacco – non sono patrimonio solo di Valentino (sempre sia lodato), ma appartengono a una gestualità da cowboy. Come il saluto che ci si fa incontrandosi per le strade: due dita che si alzano dalla frizione o il piede, se sei in piega… (No, a te, T-Maxista minchia, non ti saluto. NON SEI UN MOTOCICLISTA, sei un ex adolescente con la sindrome di Peter Pan!)
E allora, dicevo, la moto è libertà. Libertà dalle file, dagli ingombri, dalle valigie, dalla pigrizia… È davvero un cavallo che ti chiede di essere essenziale e di goderti il viaggio, e la nuova Ténéré è così: solo ciò che serve. Ruota alta e manubrio largo per non avere il limite dell’asfalto, un motore arzillo ma tutto sommato mooooooolto tranquillo. Lei diventa leggera come una gazzella e ti fa sentire sicuro che la giornata, comunque vada, sarà memorabile nel nostro entroterra appenninico, perché male che vada l’avrai comunque passata in moto.
Mentre vi scrivo, la moto è nel mio garage. Devo riconsegnarla domattina. Ora ripetete con me:
“Quando questo bravo ragazzo un giorno – certo non oggi e forse non domani, ma un giorno – si presenterà alla DeG Motorbikes, voi lo tratterete al meglio perché certo il ragazzo non è il più veloce, certo non il più bravo a guidare, ma cazzo sì, se la merita! Perché in quanto a romanticismo e mudòr… non lo batte nessuno.”
Sono aperte le donazioni per l’acquisto della mia moto. Il mio IBAN è / DONATE il 5×1000 scrivendo “moto per Cristiano” o lasciate una busta con due spicci nella mia casella postale, oppure all’144…
Perché si sa, il fine giustifica il mezzo.
Se volessi bluffare, vi farei l’elenco dei pezzi che VORREI avessero sottolineato come colonna sonora alcuni episodi salienti della mia vita. Ma la realtà è ben diversa perché, se ci pensate bene, i pezzi che hanno segnato momenti pregnanti della nostra breve e fatua esistenza non ce li siamo scelti noi. Sono arrivati così, d’amblé, a coronare quel momento magico che non te lo sto a dire, senza possibilità di cambi. Una volta la musica “passava” alla radio. Sennò, cassetta C90 e ciao. Altroché Spotify.
Dopo un campo estivo in gemellaggio con un gruppo padovano, con la gang del bosco decidiamo di solidificare le relazioni intrecciate durante quei giorni. E, possibilmente, di realizzare il sogno di dire: “C’ho la morosa fòresta!” ai tuoi compagni di scuola rimasti al paese a frollarsi sotto il sole d’agosto. Il tutto, ovviamente, prima dell’inevitabile ritorno in classe.
Così partiamo in treno per andare a trovare le ragazze padovane appena conosciute. Soldi in tasca pochi, senso di libertà: infinito e oltre.
Non ve la faccio lunga, ma qualche giorno dopo ci ritroviamo con le nostre amiche (e sottolineo amiche, mannaggia a noi) a sfrecciare su una strada comunale che costeggia il Brenta. Una Fiat Uno grigia, cerchi in lega, tettuccio apribile e vortice d’aria incluso. Autoradio a pomello, dalla quale esce – con un sound sgraziato – un successo di un paio di stagioni prima:
“Eccissèèèèiiii adesssottuuuuu!” di Eros Ramazzotti.
E via, noi tutti dietro a cantare a squarciagola, un coro probabilmente sguaiato ma indubbiamente manifesto di un momento perfetto di felicità. Non c’è nulla da fare: a 16 anni, essere lontano da casa con i tuoi amici, su una Fiat guidata da una complice (la sorella grande di una delle nostre conquiste) ha fatto sì che anche io, duro e puro DeAndreista Guccinaro, cedessi.
Ma del resto, quando si entra in ballo… bisogna ballare.
Ci stupimmo solo dopo, realizzando che la grande forza di tante canzoni è quella di rimanere impresse nella memoria anche di chi apparentemente non le gradisce.
Sempre ragazzi e ragazze. Stavolta, passeggiata nelle colline pesaresi. Una di loro, leader indiscussa delle local Pink Ladies, insiste per portare tra le attrezzature da trekking un oggetto imprescindibile: un mangianastri, un mini ghettoblaster. Pesante come un caravan americano.
Per capirci: un suono che, in confronto, le casse della Uno 45 sembravano un auditorium newyorkese. Durata delle pile: quattro stilo grosse come bombole del gas. Resistenza stimata: 45-50 minuti portati male, di cui gli ultimi dieci caratterizzati da un progressivo rallentamento della testina del mangiacassette. L’effetto? Una distorsione demoniaca di un’altra canzone cardine, mio malgrado.
Silenzio. Vaghezza. Gnorri.
“Perché lo fai” di Marco Masini.
Dall’album Malinconoia. Un concentrato di pessimismo cosmico, cantato con una voce oggettivamente da paura, che per principio il mondo maschile adolescenziale bandiva dalle possibilità d’ascolto.
Ma sapete com’è. A loro piaceva SOLO Marco Masini. E a noi…
Passaggio cruciale: dall’Ape 50 al 125.
Da ronzino a cavallo vero. Da tempi di spostamento biblici a un’accelerazione finalmente degna di questo nome.
Così, primo viaggio: raccolgo l’amico più pazzo di sempre, Dario Ottaviani, 50 kg di spericolatezza e incoscienza. Passeggero ideale. Casco Nava integrale (da cui era sparita già da tempo la visiera), entrambi i pugni puntati verso l’alto, urla a squarciagola:
“Noooooon mi vaaaaaa, che stai sempre bene, che fai finta di godere, no!”
Vasco Rossi. E ciao.
Verso la fine. Credo inizio vacanze di Natale.
Lei è tornata a Roma.
Tu sei innamorato perso.
Ce l’avevi quasi fatta a strapparla dalle grinfie del fidanzato carabiniere.
Un’impresa per certi versi epica. I bookmaker ti davano a zero, ma tu giù, cocciuto, rookie sulla pista della storia impossibile. Un breve attimo di felicità e poi… lei parte per la capitale.
Lei dice che tornerà.
Ma tu, in cuor tuo, lo sai.
Se tornerà, NON tornerà per te.
Lo sai con certezza perché LEI, prima di salutarti – come in una di quelle scene da film da femmine in cui anche tu tiri giù una lacrimuccia fingendo di avere un bruscolino nell’occhio – ti ha lasciato una COMPILATION su C90.
Una sorta di testamento audio con sequenza super-trittico strappacuore:
Della serie: prendi un ragazzo, trattalo male, spianalo con un trattore.
Traduzione: Ciao, è stato bello, ti preferisco come amico, vattelapijja… (lei era di Roma).
E anche qui, guarda caso, sfrecciando su una Uno 45 prestata da un’amica, finestrini abbassati, lacrime negli occhi…
Chiudi tutto e butta via la chiave. Sipario.
Per l’evento acquisto il mezzo definitivo: una Opel Rekord SW, 2.4 diesel, quattro marce, due posti, cofano da Blues Mobile, colore gazzella del deserto.
Il viaggio verso Augsburg con UNA SOLA CASSETTA C90. Due album che alzano clamorosamente il livello:
Durante l’anno da obiettore, con livelli depressivi da record, lascio la morosa. Solo dopo, quando lei – come in un film con Hugh Grant – sale sul treno per Milano, realizzo di avere fatto la più grande cazzata della mia vita.
Qualche giorno dopo, in quella stessa stazione, prendo il treno delle 7:40 e – come nella canzone di Battisti – parto per Milano.
Colonna sonora?
Il “plin-plon” dell’altoparlante in stazione:
“Sul binario 22 è in partenza un patacca. Se gli va bene, dev’essere davvero un patacca fortunato.”
Oh raga, quest’anno ne facciamo 25 insieme… o 26?
Vabbè. È andata grassa.
Musica, maestro. 🎶
In questo periodo, per noi rookies ma, in generale, per tutte le persone di buon senso, ci sono solo due possibilità.
O prendersi a mazzate gli zebedei, imprecando contro il governo ladro e la sparizione delle mezze stagioni, mettendo al giogo quello che diceva che si stava meglio quando si stava peggio—prendendolo a ceffoni non appena finito di sistemare l’altro simpaticone che ha inventato il motto “andrà tutto bene”—oppure…
Oppure si può sistemare la memoria, andando a rivedere tutti quei ricordi che, volente o nolente, sono rimasti lì ad aspettarti. Perché i ricordi sono mattoni su cui costruisci il tuo carattere, il tuo percorso e, certamente, la tua identità. Ma non voglio annoiarvi troppo, perché immagino che, in questo momento, sia altrettanto importante non eccedere in intimismi tardo-esistenziali. C’è bisogno di leggerezza, come quei ricordi estivi che, sì, hanno un lieve retrogusto di malinconia, ma sanno di Lemonissimo da 500 lire, di pedalate infinite, e non possono non riportare un sorriso alle labbra.
Il magazzino della memoria è fatto di pensieri, ricordi, immagini, episodi, persone, odori, luoghi e cose. Forse, una capacità di chi fa il mio mestiere è proprio quella di riuscire a farli riaffiorare velocemente.
Così è successo l’altro giorno, mentre camminavo attraverso la città, un lusso che mi sono concesso in questi giorni di zona rossa. Camminare aiuta l’osservazione.
In una via della nostra città c’è una semicurva da prendere a velocità moderata, poiché tale tratto, che porta lievemente verso destra entrando in pendenza in un sottopasso stretto e male illuminato, è estremamente pericoloso per chi guida con disattenzione. Se preso a velocità andante-vivace, infatti, butta verso l’esterno, alleggerendo per un attimo il mezzo e rendendolo, in determinate condizioni, meno aderente al suolo.
Proprio su quella semicurva ho visto il mio DailyGod (persona sconosciuta incontrata per un attimo, capace di ispirarti pensieri positivi): un anonimo, ma non per questo meno stimabile, imbianchino che, su un’Apecar 50 con carico sporgente e insicuro, affrontava la curva con l’ignoranza di chi cerca la sfida vera, inseguendo il rischio—o forse ignorandolo completamente—dimenticando prudenza, codice della strada e affini.
Un ingresso in velocità alla Randy Mamola all’ultimo giro, con il posteriore destro dell’Ape già scomposto in una staccata al limite, completamente fuori traiettoria originaria, con una nuova rotta diretta verso il plinto sinistro del sottopasso.
Ma lui, in tuta e baffi, come un Super Mario in salsa supercool, spavaldo come solo un maschio alfa può essere, apriva tutto il gas disponibile (sì, l’Ape non è una scheggia, ma anche i 60 all’ora su quel trespolo sono da brividi), ignorando l’impianto frenante—peraltro inutile in quelle situazioni—e, contro ogni previsione, rientrava incolume per grazia divina nell’antro buio del sottopasso, scomparendo ai miei occhi.
Il nostro eroe ce l’ha fatta. Credo. Non ho sentito clangori oltre il tunnel. Io me lo sono immaginato ad ascoltare in cuffia “Dio delle città” dei Pooh.
(Tempo di lettura: 2:32)
Ma torniamo all’Ape, che ha un’origine meravigliosa e tutta italiana. Nell’Italia ancora sfinita dalla guerra, nel 1948, serviva un mezzo pratico ed economico. Pratico voleva dire: in grado di portare carico. A Pontedera, Enrico Piaggio e Corradino D’Ascanio presero una Vespa e le “pimparono” il deretano, accollandole un carretto. Voilà: la TriVespa! Anche se nulla mi potrà dissuadere dal pensare che l’Ape, in tutte le sue varianti, sia stata in realtà progettata come inibitore di velocità per noi altri scavezzacollo. Una sorta di guardrail semovente. Un monito agli sveltoni della manetta. Un pezzo di latta e gomma, piazzato sempre, sempre, dove potrai vederlo solo e sempre all’ultimo momento.
Spiego: Nella sua versione 50cc, guidata da uomo con cappello + consorte corposa in cabina + prodotti stagionali della campagna, che dalla campagna si avvicina al mercato rionale cittadino, si piazza a velocità di 11/13 km/h proprio dietro la curva che tu, centauro impavido e borioso, stai affrontando poco più indietro con la tua moto nipponica. Una curva studiata e provata più volte, con una linea d’uscita perfetta sulla carta, che però non prevede—appunto—che al di là di quella curva, sulla tua traiettoria giottesca, ci sia proprio lei: l’Apecar 50.
L’arma definitiva per mettere alla prova gli sveltoni come te. L’Apecar che, a passo di lumaca, incurante dei tuoi studi accademici sulla piega perfetta, occuperà tutta la carreggiata disponibile e ti costringerà, in un attimo, a rivedere il concetto di rapidità di riflessi fratto vedere la morte in faccia fratto la tua disposizione ad effettuare la correzione del secolo. Ti aggrapperai a qualsiasi leva frenante del tuo mezzo, affidandoti ora et sempre al Santo del giorno: San Brembo da Palatina.
Se mi stai ascoltando, vuol dire che ce l’hai fatta. E mi raccomando, ragazzi: la strada non è una pista, e l’Ape 50 è ancora uno dei mezzi più diffusi al mondo. Altroché autovelox!
CHEAP FESTIVAL a Bologna è una di quelle cose belle in un mondo, quello della comunicazione, davvero in crisi di idee, di capacità di svilupparle e di farle conoscere. Questi tre miei sono stati selezionati per colorare la capitale emiliana e accompagnare gli studenti, le mamme, i lavoratori, le operatrici sulle vie dei loro impegni.
Date un’occhiata qui: CHEAP FESTIVAL
Nella primavera appena passata, con il progetto Ossigeno™, abbiamo fatto un laboratorio test… riuscire a produrre dei poster belli e funzionali con un team fritto misto che normalmente non ha nulla a che vedere con la grafica e il visual design, ma che come tutti noi ha la responsabilità di esporre i propri pensieri… e quale luogo migliore di un parco pubblico per farlo? Così è nato questo set coloratissimo, dove voglia di comunicare e competenze specifiche si sono incontrati per dare voce “disegnata” a chi normalmente… non ce l’ha, con la consapevolezza che prima di un buon disegno grafico… ci vuole sempre una buona idea e sapere come comunicarla.